Il capitalismo della sorveglianza: il vero prezzo delle app gratuite
- Marco Gasparri
- 2 giorni fa
- Tempo di lettura: 3 min
Quando scarichiamo un’app gratuita, ci sembra di aver fatto una scelta intelligente. “È gratis, che vuoi che sia?” E dopo due secondi siamo già pronti a usarla. Poi arriva il momento delle autorizzazioni: “Vuoi condividere la posizione?” “Vuoi permettere il tracciamento?” “Vuoi concedere l’accesso ai tuoi dati?”
E noi, senza nemmeno pensarci, clicchiamo Consenti. Lo facciamo per comodità, per fretta, per abitudine. Ma quel tap non è un dettaglio tecnico: è il vero prezzo. Perché una verità semplice e scomoda dobbiamo ricordarcela sempre: nulla è gratis. Nel marketing se qualcosa è gratis significa che il prodotto sei tu. Se non paghiamo in denaro, paghiamo in dati.
E quei dati, di solito, non restano nell’app che li ha raccolti. Iniziano un viaggio che non vediamo: dallo sviluppatore ai partner, dai partner ai partner dei partner… fino ad arrivare a società dall’altra parte del mondo, spesso in Paesi dove la privacy è molto più “elastica”. A volte veri e propri paradisi fiscali, dove i dati vengono acquistati, aggregati, impacchettati e rivenduti come una merce preziosa.
Gli esempi reali non mancano. Muslim Pro, un’app di preghiera scaricata da milioni di persone, ha venduto la posizione degli utenti a un’azienda che collaborava con il Dipartimento della Difesa americano. Life360, l’app che molte famiglie usano per sapere dove sono i figli, registrava spostamenti precisissimi e li rivendeva a una vasta rete di intermediari. Alcuni sistemi musicali dei negozi riconoscono gli smartphone che entrano, quanto restano e se tornano, così da tracciare i comportamenti dei clienti.
Perfino le app meteo, quelle che dovrebbero soltanto dire se domani piove, sono state trovate a raccogliere la geolocalizzazione giorno e notte, anche quando l’app è chiusa, per poi rivenderla ad aziende estere.
E per capire quanto questo tracciamento sia preciso, basta fare un esempio concreto.
Scarichi un’app gratuita del meteo. Accetti la posizione. Da quel momento registra tutto:
– alle 7:14 sei sempre nello stesso punto quindi a casa
– alle 8:03 ti sposti sempre verso un altro punto, probabilmente lavoro
– alle 13:10 sei nello stesso bar
– alle 18:30 arrivi in palestra → abitudine
– il sabato sei in un centro commerciale
– una volta al mese entri in una clinica specifica
Presi singolarmente sembrano dettagli. Insieme diventano una radiografia perfetta della tua vita quotidiana. Ed è proprio questa radiografia che viene venduta. Magari finisce in server a Singapore o alle Cayman, dove i dati vengono rivenduti più volte.
E spesso, nel pacchetto, finisce anche il tuo numero di telefono: e dopo qualche giorno iniziano a comparire telefonate commerciali indesiderate, offerte assurde, spam e anche truffe!

Non è magia: è quel “Consenti”.
A questo punto una domanda è inevitabile: Ma sanno chi sono davvero?
Ufficialmente no: i dati vengono dichiarati “anonimi”. Nella pratica, sì. Perché basta incrociare due informazioni e potrebbe essere facile risalire alla tua identità. Tutto il resto completa il profilo: abitudini, routine, spostamenti, fragilità, interessi, stato di salute. Non serve sapere come ti chiami: basta osservare come ti muovi.
Questa dinamica è esattamente ciò che Shoshana Zuboff definisce Il capitalismo della sorveglianza: un sistema in cui noi non siamo clienti, ma materia prima. I nostri dati diventano la base di un’economia enorme che vive della nostra disattenzione digitale.
Non ci controllano perché siamo importanti. Ci controllano perché siamo preziosi. E finché continueremo a cliccare “Consenti” senza pensarci, resteremo una merce perfetta da catalogare e rivendere.
La tecnologia non è il problema. Il problema è la leggerezza con cui regaliamo i nostri dati come fossero niente. E invece valgono moltissimo.
La prossima volta che un’app ti chiede la posizione, non devi dire sempre di no. Devi solo ricordarti che quel tap ha un valore enorme. E molto spesso, non per te.

