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RISULTATI DI RICERCA

40 risultati trovati con una ricerca vuota

  • Le Crete Senesi come caso studio di marketing territoriale.

    ( Cosa può imparare ogni territorio da un paesaggio dove “non cresce nulla” ) Quando si pensa alla Toscana, vengono in mente i cipressi, le colline pettinate, i borghi intonacati di ocra e mattone. Poi ci sono le Crete Senesi , che sembrano un’altra cosa. Un’altra Toscana. Una terra nuda, brulla, spigolosa, senza fronzoli. Eppure, chi ci passa, non se le dimentica. Perché colpiscono, restano in testa. Sono riconoscibili. E questo – nel marketing territoriale – è più importante della bellezza in senso assoluto. Un territorio difficile, fragile, apparentemente povero di attrattive…che è riuscito a diventare fortissimo in termini di immagine, percezione e posizionamento. Non attraverso una strategia pubblicitaria “alla moda”, ma con: Coerenza Lentezza Identità Scelte nette Tutto quello che tanti altri territori evitano di fare, per paura di perdere qualcosa o di non piacere a tutti. Cosa ha funzionato nelle Crete Senesi? 1. Hanno accettato (e valorizzato) la loro natura spoglia Non hanno cercato di sembrare un’altra zona della Toscana. Non hanno messo girasoli, né vigneti, né borghi da copertina ovunque. Hanno fatto pace con la loro essenzialità e l’hanno trasformata in segno distintivo. ▶ LEZIONE: Non cercare di copiare altri territori. Punta su ciò che hai. Anche se è poco. Anche se è ruvido. 2. Hanno costruito un immaginario chiaro Se cerchi “Crete Senesi” su Google, troverai migliaia di immagini quasi identiche : curve d’argilla, cipressi solitari, cieli larghi, luci taglienti. Non è monotonia. È identità visiva forte. Significa che hanno lavorato bene, in modo coerente, lasciando che la natura diventasse firma visiva. ▶ LEZIONE: Non serve cambiare immagine a ogni stagione. Serve una coerenza visiva nel tempo. 3. Hanno trasformato la scarsità in esperienza In un mondo dove tutti spingono per “fare”, le Crete propongono di non fare. Non mille eventi, non tour forzati. Ma vuoto, silenzio, contemplazione. E per una parte di pubblico – crescente – questa è una proposta fortissima. ▶ LEZIONE: A volte, meno è meglio. Non devi sempre aggiungere. Puoi anche togliere, semplificare, lasciare spazio. 4. Hanno parlato con un tono coerente Nessuno slogan acchiappa-turisti. Nessuna promessa finta. Il tono delle Crete è sobrio, essenziale, quasi letterario. Le parole usate per raccontarle sono in sintonia con l’ambiente. ▶ LEZIONE: Il modo in cui comunichi deve rispecchiare ciò che sei. Il tono è parte del posizionamento. 5. Non si sono snaturate per attrarre Ecco il punto più importante. Le Crete non hanno svenduto se stesse. Non hanno aggiunto attrazioni a caso, non si sono rese “facili”, non hanno cercato di piacere a tutti. E proprio per questo, oggi attraggono proprio per quello che sono. ▶ LEZIONE: L’identità non si costruisce per consenso. Si costruisce per scelta. Con coerenza. Con pazienza. Cosa può fare un altro territorio? Prendere esempio. Ma non imitare. Ogni territorio ha la sua storia, la sua forma, il suo modo di parlare. Ma i principi che hanno funzionato nelle Crete Senesi valgono ovunque. Eccoli: Trova un elemento distintivo e lavoraci sopra Non cercare di essere tutto. Cerca una cosa sola che ti renda diverso. Un paesaggio, un ritmo, un sapore, un sapere. Quello diventerà il tuo simbolo. Crea un’immagine coerente Non servono mille materiali. Serve una visione unica e condivisa. Logo, immagini, linguaggio, grafica: tutto deve andare nella stessa direzione. Accetta i tuoi limiti. Raccontali Non coprire quello che manca. Usalo. Se sei isolato, diventa rifugio. Se sei spoglio, diventa essenziale. Se sei lento, diventa meditativo. Smettila di voler piacere a tutti Scegli un tono, un pubblico, un’identità. Chi cerca altro, andrà altrove. Va bene così. Chi ti sceglierà, ti sceglierà davvero. Le Crete Senesi insegnano una cosa semplice e per questo diventano un caso studio di marketing territoriale: anche un territorio apparentemente “povero” può diventare potentissimo , se sa chi è , e ha il coraggio di dirlo con coerenza. Non hanno fatto miracoli.Hanno solo scelto una strada , l’hanno seguita nel tempo, e non hanno mai tradito la propria identità. Ed è proprio lì, in quella fedeltà, che è cresciuto un brand territoriale memorabile.

  • Il tempo è diventato il vero valore percepito.

    (Ma chi lavora bene può ancora vincere. Ecco come.) Una volta si diceva: “Chi più spende, meno spende. ” Era una frase da nonni, ma funzionava: compra bene una volta, e stai a posto. Oggi invece si dice: “Ordinato stamattina, arriva stasera!” E se arriva domani… tragedia. Commento negativo. Il tempo è diventato il vero valore percepito . Ma è un valore fragile, effimero, sbilanciato. Perché abbiamo confuso la velocità con la qualità , l’immediatezza con la competenza. E ci stiamo perdendo per strada il senso di ciò che conta davvero. Viviamo nell’era della gratificazione istantanea. Vogliamo tutto, subito. E se ci vuole tempo, pensiamo che ci stiano prendendo in giro. Anche quando stiamo per acquistare qualcosa di serio, che richiederebbe cura, attenzione, competenza. Il marketing moderno ci ha rieducati a desiderare la velocità, non la qualità. E il risultato è questo: preferiamo un mobile Fai da Te “oggi” a un falegname in tre settimane scegliamo il preventivo più veloce, non quello più preciso ci facciamo attrarre da chi promette tutto… e mantiene poco La dittatura dell’“adesso” Viviamo in una cultura che ha fatto della fretta un criterio di acquisto . Siamo stati educati (male) a pensare che, se qualcosa arriva subito, vale di più. Che se un servizio è disponibile ora, è anche buono. Che se un preventivo ti arriva in 10 minuti, allora è affidabile. Il marketing ha spinto su questo acceleratore. Amazon, Glovo, le promesse da landing page: tutto, ora, subito. Persino i corsi di formazione si vendono con lo slogan “diventa esperto in 3 ore” . Ma esperto di cosa, di clic? Intanto chi lavora con attenzione, precisione, competenza…rischia di sembrare lento, caro, complicato. Mentre in realtà sta solo facendo le cose come si devono fare. Il paradosso della qualità La qualità non si improvvisa. Non si stampa in giornata. Non si spedisce in 24 ore. Richiede tempo, confronto, scelta dei materiali, progettazione. Ma il mercato, quello “veloce”, tutto questo non lo spiega. E il cliente non lo sa. O se lo dimentica. Chi lavora bene, oggi, spesso si trova davanti a questo bivio: competere sulla velocità  e sui prezzi , snaturando il proprio lavoro o rischiare di sparire , perché “gli altri sono più rapidi” Ma c’è una terza via. E si chiama marketing della qualità. Ma chi lavora bene — e sa di non poter competere su velocità o prezzo — cosa dovrebbe fare? 1. Racconta il tuo valore (prima del tuo prodotto). La gente non sa cosa c’è dietro un lavoro ben fatto. Faglielo vedere. Spiegaglielo. Mostra le fasi, la cura, il dettaglio. Se ci metti 4 giorni invece di 1, spiega perché quei 3 giorni fanno la differenza. 2. Non vendere il tuo tempo: vendi il risultato. Non dire “ci metto due settimane”. Dì: “tra due settimane avrai una cosa che funziona, dura e non ti dà problemi.” Non è una scusa: è una promessa solida. 3. Sfrutta la lentezza come leva di fiducia. Oggi è pieno di “subito disponibili”. Ma spesso sono anche subito da buttare. Se sei uno dei pochi che ci mette testa e mano, usalo come differenziale competitivo. Non dire “mi dispiace se ci vuole tempo”. Dì: “ci vuole tempo, proprio perché lo faccio come si deve.” 4. Cura il servizio almeno quanto il prodotto. Non basta essere bravi. Bisogna anche essere chiari, presenti, affidabili. Chi compra è disposto ad aspettare, ma solo se si sente seguito. Una telefonata in più, una spiegazione, una foto del lavoro in corso… e la percezione cambia. E infine: educa il tuo cliente. Non con la presunzione, ma con pazienza. Aiutalo a capire che dietro una buona riuscita c’è un processo. E che, nel mondo del tutto-subito-low-cost, chi lavora bene è diventato un lusso. E il lusso, si paga. Chi fa le cose con cura oggi si sente fuori tempo. Ma non è fuori tempo. È fuori moda . E come tutte le cose fuori moda…prima o poi, torna ad essere desiderato. Ma solo se ha saputo restare visibile. Raccontarsi. Farsi scegliere. Non urlando. Ma spiegando.

  • Il gelataio ha capito tutto di marketing. Tu no.

    Sono appena uscito da un gelataio di quartiere. Uno vero. Niente gusti fluo, niente “esperienze multisensoriali”. Solo acciaio, panna fresca, mani esperte. Appena entro, senza chiedermi niente, mi porge un cucchiaino e dice: “Questo è nuovo, l’ho fatto stamattina. Assaggia.” Lo assaggio. Mi piace. Lo compro. Fine. O meglio: inizio della lezione di marketing. Perché in quel gesto c’è tutta la differenza tra chi aspetta di vendere  e chi crea le condizioni per farsi comprare . Quel cucchiaino è marketing allo stato puro. In tre secondi netti ha: Ridotto la mia incertezza Creato un legame personale Offerto valore prima di chiedere soldi Dimostrato fiducia nel proprio prodotto Attivato un meccanismo psicologico semplice: “Se me lo offre, deve essere buono” E il bello è che non ha fatto nulla di straordinario. Ha solo fatto bene una cosa semplice . E ora parliamo di te. Hai una piccola impresa, un laboratorio, un agriturismo, un’enoteca, un negozio, un servizio artigianale? Hai qualcosa di buono tra le mani? Bene .Ora dimmi: dov’è il tuo cucchiaino? Perché troppo spesso vedo realtà con prodotti eccellenti, tradizione vera, lavoro serio…che però si presentano male, comunicano peggio, e vendono poco. E non perché manca il talento, ma perché manca l’idea giusta per farlo arrivare alle persone. 5 cose che puoi imparare dal gelataio 1. Fai provare prima di vendere. Un pezzo, un assaggio, un test, una demo, una chiacchierata senza fretta. Fai capire cosa  offri, ma soprattutto perché vale la pena provarlo . 2. Cura il primo contatto. Il cucchiaino arriva prima della richiesta. Anche il tuo marketing dovrebbe. Una mail scritta bene, un profilo social umano, una vetrina che inviti a entrare. 3. Semplifica la scelta. Niente listoni infiniti di prodotti e servizi. Aiuta il cliente a capire cosa fa per lui. Come ha fatto il gelataio: “Assaggia questo.” 4. Fai sentire unico ogni cliente. Il cucchiaino è lo stesso per tutti, ma sembra fatto solo per te. Questo è il segreto: standard alto, percezione personale. 5. Se non sei convinto tu, non convincerai mai nessuno Il gelataio sa che quel gusto è buono. Lo sa perché l’ha fatto lui, con cura. Se hai dei dubbi sul tuo prodotto o sul tuo servizio, sistemalo prima. Il marketing arriva dopo la sostanza, non prima. Il marketing, quello vero, non è complicato. Non serve inglese tecnico, non servono tool. Serve un gesto, un’intenzione, una logica semplice: offrire prima di chiedere . Il gelataio l’ha capito. E funziona. Tu puoi farlo anche meglio. Ma serve una cosa sola: il coraggio di porgere il cucchiaino.

  • Marketing della carta igienica: ovvero come spendere di più per lo stesso rotolo.

    Nel mondo ideale, la carta igienica sarebbe un prodotto semplice: serve a uno scopo preciso, si consuma in silenzio, non ha bisogno di attenzioni. Nel mondo reale, invece, è diventata uno degli esempi più curiosi — e riusciti — di marketing applicato al quotidiano. Perché sì: anche la carta igienica ha un brand, un tono di voce, una strategia di posizionamento. E funziona talmente bene che riusciamo a discutere (e spendere) per scegliere quale rotolo ci rappresenta meglio . Dal bisogno al desiderio: la lezione invisibile del marketing della carta igienica Il marketing moderno non si limita più a vendere prodotti: vende significati , emozioni, stile di vita. E quando si confronta con un bene universale, quotidiano e imbarazzante come la carta igienica, scatta la sua formula più sofisticata: Sottrae la funzione. La funzione (pulire) sparisce. Viene sostituita da concetti più nobili: comfort, delicatezza, benessere, cura di sé. Maschera il bisogno. Attraverso grafiche rassicuranti (fiori, animali, bambini), colori pastello e profumazioni rilassanti, l’imbarazzo viene rimosso. Il rotolo smette di essere ciò che è, e diventa un oggetto da scegliere con gusto. Trasforma il consumo in identità. Più veli? Più valore. Più profumo? Più attenzione. La carta igienica diventa una dichiarazione di sensibilità personale . Il risultato è una vera e propria esperienza di marca , costruita su un prodotto che non avrebbe alcun bisogno di essere raccontato. Eppure ci riesce — molto bene. Quattro strategie ricorrenti (che trovi su ogni scaffale) I veli come simbolo di status. Due veli = base. Tre = standard. Quattro o cinque = attenzione, qui si parla di “cura”. In realtà cambia pochissimo, ma la percezione cambia tutto. Le profumazioni sensoriali. Lavanda, camomilla, muschio bianco. Non migliorano l’efficacia, ma stimolano l’idea di “pulizia raffinata”. Il design emozionale. Colori delicati, animali sorridenti, confezioni eleganti. La carta non si mostra per ciò che è, ma per ciò che vorremmo pensare che sia . Il linguaggio pubblicitario. “Testata dermatologicamente”, “cura profonda”, “morbidezza extra”. Parole che suonano rassicuranti, ma spesso non hanno valore tecnico oggettivo. Come difendersi senza estremismi. Non si tratta di rinunciare al comfort, né di tornare alla carta ruvida dei tempi andati. La questione, semmai, è un’altra: quanto siamo davvero consapevoli di ciò che stiamo comprando? Il marketing, quando è ben fatto, sa costruire valore anche attorno ai gesti più semplici. Il problema nasce quando questo valore è percepito , ma non reale — e finiamo per pagare una narrazione, non una differenza concreta. Difendersi, in questo caso, non significa diventare sospettosi o iper-razionali. Significa, più semplicemente, riprendere il controllo delle proprie scelte . Ecco alcune buone pratiche per farlo, con leggerezza e lucidità: 1. Valuta il contenuto, non solo il contenitore. Spesso il cosiddetto "formato convenienza" lo è solo per chi lo vende. 2. Ascolta le parole, ma non prenderle per oro colato. Termini come “cura profonda”, “pelli sensibili” o “benessere quotidiano” sono formulazioni persuasive, ma raramente supportate da evidenze concrete. Sono pensate per emozionarti, non per informarti. 3. Sperimenta, ogni tanto, soluzioni più essenziali. Senza pregiudizi. Giusto per verificare se la differenza tra “premium” e “standard” sia davvero così marcata come vogliono farti credere. Spesso non lo è. 4. Chiediti, semplicemente, perché lo stai comprando. Ti serve davvero? O ti fa solo sentire più curato, più attento, più “giusto”? Non c’è nulla di male a scegliere un prodotto che ci fa stare bene. Ma è importante sapere se stai comprando la carta… o la sensazione di essere una persona migliore. Il marketing della carta igienica è uno dei casi più raffinati di storytelling applicato alla banalità. Non vende un oggetto: vende un modo di vivere quel gesto invisibile, rendendolo più accettabile, più “di marca”, più tuo. Un esempio perfetto di come, nel marketing moderno, non sia importante cosa compri… ma come te lo raccontano.

  • Vinitaly: marketing del vino - cosa funziona davvero (e cosa no) per le piccole cantine italiane

    Sto andando al Vinitaly. Come ogni anno. È un pellegrinaggio enologico, una sorta di Natale per il settore: treni pieni, hotel esauriti da settimane, gente che gira con il calice al collo come se fosse il badge dell’identità nazionale. E in effetti un po’ lo è: perché il vino in Italia non è solo una bevanda, è appartenenza, tradizione, racconto. E come ogni anno, mi preparo a vedere di tutto. Dai piccoli produttori con gli occhi lucidi e le mani segnate dalla vigna, fino ai colossi con gli stand a due piani, le hostess come a una sfilata di alta moda e gli assaggiatori professionisti col naso immerso nel bicchiere che descrivono la loro esperienza con grandi paroloni. Il vino è una cosa seria. Il marketing del vino… non sempre Il vino è storia, è lavoro, è pazienza. È la vigna che non guarda l’orologio, è il tempo che serve per aspettare il momento giusto. È la terra che dà e toglie. In Toscana lo sappiamo bene. E in Maremma ancora meglio. Qui non si improvvisa: si lavora, si lotta contro la siccità, si spera nella pioggia, si fa con quello che c’è. Si vinifica per vocazione. Ma poi arriva il marketing. E lì succede qualcosa. Come se ci fosse la necessità di prendere un prodotto già profondo e vero, e gonfiarlo con parole in più, effetti speciali, storie che spesso non reggono il confronto con la realtà. Descrizioni poetiche, etichette da gioielleria, storytelling da film premiato a Cannes. Il vino che “accarezza il palato con note di sottobosco e mineralità ”. Ma chi lo capisce questo linguaggio? La verità è che il vino lo bevono tutti. Ma il linguaggio del vino lo capiscono in pochi. E questo crea una frattura. Il marketing del vino dovrebbe unire, semplificare, tradurre. Invece, nel mondo del vino, spesso fa il contrario: esclude, allontana, complica. Chi entra in una fiera o in un’enoteca dovrebbe sentirsi a casa. E invece si sente a disagio. Troppa terminologia, troppa ostentazione, troppa serietà. Come se per godersi un bicchiere ci fosse bisogno di una laurea in enologia comparata e una seduta di psicoanalisi sensoriale. E allora uno prende la bottiglia che ha l’etichetta più simpatica. O quella che costa meno. O quella che gli ricorda le vacanze. Altro che “profilo organolettico”. A chi parla il marketing del vino? Bella domanda. Perché a volte sembra che parli… solo a sé stesso. O agli addetti ai lavori. O ai clienti giapponesi in visita organizzata. Ma il vino non è solo prodotto da vendere all’estero. È anche cultura quotidiana. È convivialità. È “che ci apriamo stasera con la carbonara?”. È famiglia. È aperitivo in terrazza. È festa in piazza. Eppure, gran parte della comunicazione vinicola sembra voler impressionare più che raccontare. Sorprendere più che accogliere. Farsi notare più che farsi capire. Piccoli produttori, fate attenzione (e fate meglio) Se sei un piccolo produttore, soprattutto se vieni da zone come la Maremma – dove il lavoro vero ancora si sente, dove la vigna la tocchi e la vivi ogni giorno – allora hai un tesoro in mano. Ma per valorizzarlo non ti serve imitare le grandi aziende. Ti serve essere chi sei , nel modo più chiaro e coerente possibile. Ecco qualche consiglio, che vale oro più del pass per il padiglione centrale: 1. Parla semplice e chiaro Il tuo cliente ideale non è un critico, è una persona curiosa. Racconta il vino come lo racconteresti a cena con amici. Basta con i termini da manuale: usa parole vere, racconta aneddoti, spiega il tuo lavoro senza complicarlo. 2. Mostra, non dichiarare Non dire che sei “autentico”. Fallo vedere. Mostra la tua vigna, i tuoi errori, la grandinata che ti ha distrutto metà raccolto. Fai storytelling, sì, ma sincero. Quello che non ha bisogno di effetti speciali. 3. Internet non è il male. È un alleato Se non hai un sito web decente nel 2025, il problema non è il vino: è la tua visibilità. Cura la tua presenza online. Non serve essere ovunque, ma dove sei, devi esserci bene . Un sito semplice, con belle foto, un catalogo aggiornato e i contatti ben visibili. Stessa cosa per i social: non devi postare ogni giorno, ma ogni tanto sì. E con contenuti tuoi, non copiati. 4. Collabora con il tuo territorio La Maremma è un brand. Un valore aggiunto. Lavora con chi fa olio, formaggi, ospitalità. Crea pacchetti, sinergie, eventi veri. Non solo open day con il buffet di plastica, ma esperienze che restano. 5. Non svenderti, ma nemmeno ti montare la testa Il tuo vino è buono? Bene. Ma il cliente lo decide dopo averlo bevuto, non leggendo la brochure. Trova un prezzo giusto, spiega cosa c’è dietro quel costo. Educare al valore è il compito più nobile del marketing. Il Vinitaly serve, ma solo se torni con le idee chiare Andare a Vinitaly è utile, anche per i piccoli. Per guardare cosa fanno gli altri, per imparare, per stringere mani. Ma non bisogna lasciarsi abbagliare. Non è uno show da imitare. È un’occasione per capire dove va il settore. E per decidere, con testa e cuore, dove vuoi andare tu. Io sto andando. E come ogni anno, guarderò, assaggerò, parlerò. Ma anche ascolterò. E proverò a scrivere qualcosa che serva a chi sta in vigna tutto l’anno, non solo a chi si aggira tra gli stand col badge al collo e la parlantina pronta. Perché il vino è una cosa seria. Proprio per questo, ogni tanto, bisogna prenderlo un po’ meno sul serio.

  • Il passaparola funziona ancora? Chiedilo alla signora della bottega.

    Strategie virali pre-internet (e molto più efficaci dei like). Ogni tanto, durante una consulenza o una riunione con qualche cliente, salta fuori la domanda: “Ma il passaparola… funziona ancora?” E ogni volta mi viene da sorridere. Perché la risposta è sì. Funziona. Funziona sempre. Funziona ovunque. E funziona soprattutto quando nessuno se ne accorge. Io ci sono cresciuto, con il passaparola . Letteralmente. Sono cresciuto dietro il banco del negozio di alimentari di mia nonna, in un quartiere dove la comunicazione era affidata a due strumenti infallibili: la radio accesa in sottofondo… e le chiacchiere delle clienti. La vera potenza mediatica, però, non stava nella radio. Stava nella signora che, mentre comprava due etti di prosciutto, ti raccontava chi aveva aperto un nuovo ristorante, quale medico era più bravo, dove si trovavano le migliori scarpe per camminare o quale era la parrucchiera più brava. Era il marketing umano, fatto di fiducia, abitudini e piccoli riti quotidiani. Mia nonna, la signora della bottega –  c’è sempre la signora della bottega o del forno in ogni comunità – non aveva follower, ma influenzava tutti. Non scriveva recensioni su Google, ma bastava una frase detta con un mezzo sorriso (“l’ho provato, mi sa che ci torno”) per far partire la voce. E la voce, fidati, correva più veloce di qualsiasi newsletter. Negli anni ho visto tante cose cambiare nel marketing. Siti web, app, social media, funnel complicatissimi, chatbot e intelligenze artificiali. Ma una cosa è rimasta uguale: la forza del passaparola. Il problema è che molti l’hanno dimenticata. O peggio, credono di poterla forzare  con qualche trucchetto da marketer: “Facciamo un programma referral, diamogli un codice sconto se porta un amico!” Ma il passaparola vero non funziona così. Il passaparola richiede tempo, cura, costanza . E non è detto che venga a tutti. Perché le persone parlano solo di ciò che le ha colpite davvero. Se un’attività sorprende, accoglie, risolve un problema, regala un sorriso, crea un’esperienza memorabile… allora sì, se ne parla. E se ne parla in modo credibile, perché a differenza della pubblicità, il passaparola si basa sulla fiducia.E la fiducia, ovunque, vale più di qualsiasi campagna sponsorizzata. Lo vedevo succedere ogni giorno, da bambino. Arrivava una cliente nuova, magari di un paese vicino. E alla domanda “Come ha saputo di noi?” la risposta era sempre la stessa: “Me l’ha detto la Mariangela. Dice che avete un pecorino che è una favola.” Un pecorino. Una favola. E un’amica fidata. Bastava quello per generare conversioni più efficaci di qualsiasi landing page ben scritta. Oggi il marketing cerca disperatamente l’autenticità . Vuole engagement, vuole community, vuole creare legami veri. Ma quei legami veri esistono da sempre. Basta alzare lo sguardo dallo schermo e ascoltare le conversazioni alla cassa del forno, dal parrucchiere, al bar. È lì che succede il vero marketing. Quello che non costa nulla ma vale tantissimo. Il punto è: vuoi essere tra quelli di cui si parla? Allora fai come faceva mia nonna: – Mettici la faccia. – Conosci i tuoi clienti per nome. – Offri qualcosa che li faccia tornare. – E quando tornano… trattali come se fossero entrati in casa tua. Perché il marketing, quello buono, parte sempre da lì: dal profumo del pane caldo, dal sorriso dietro al banco, e da qualcuno che, senza chiedere nulla in cambio, dice agli altri:“ Vai lì. Fidati. Ne vale la pena.”

  • La schiuma nel dentifricio è solo un trucco di marketing sensoriale.

    Ti sei mai chiesto perché il tuo dentifricio fa tanta schiuma? Se pensi che serva a pulire meglio i denti, ho una notizia per te: ti hanno fregato. La schiuma che non serve a nulla La schiuma nel dentifricio non ha alcun potere pulente. Non rimuove la placca, non sbianca i denti e non combatte le carie. È stata aggiunta solo per farti credere  che il dentifricio stia funzionando. Negli anni ‘50, i produttori di dentifrici si accorsero che le persone si fidavano di più di un prodotto se sentivano  qualcosa accadere in bocca. Così introdussero il sodio laurilsolfato (SLS), un agente schiumogeno che trovi anche nei detersivi per piatti. Più schiuma, più sensazione di pulizia, più vendite. Geniale, vero? In realtà, i veri responsabili della pulizia dei denti sono lo spazzolino e il tempo che dedichiamo a spazzolare correttamente. I dentifrici potrebbero anche non fare alcuna schiuma e svolgere lo stesso lavoro in modo altrettanto efficace. Ma, senza quella sensazione di "effervescenza", le persone avrebbero meno fiducia nel prodotto e potrebbero addirittura smettere di usarlo con regolarità. Se non fa schiuma, funziona meno? Se usassi un dentifricio senza schiuma, la tua igiene orale sarebbe la stessa. Ma il tuo cervello percepirebbe il prodotto come meno efficace. È un trucco psicologico ben studiato, ed è lo stesso motivo per cui i dentifrici alla menta ti danno quella sensazione di freschezza: il mentolo non pulisce, ma ti fa credere  di avere l’alito più fresco. Pensaci: quando ti lavi i denti con un dentifricio dal sapore neutro o meno intenso, hai la sensazione che non stia facendo il suo lavoro. Questo accade perché associamo il concetto di pulizia a stimoli sensoriali forti, come il bruciore della menta o la schiuma abbondante. È tutto nella nostra testa, e i brand lo sanno bene. Altri trucchi di marketing che ti ingannano Questo meccanismo non si applica solo ai dentifrici. Lo troviamo ovunque: Shampoo e bagnoschiuma : più schiuma non significa capelli o pelle più puliti. Molti prodotti naturali non fanno schiuma, ma funzionano comunque. Bevande energetiche : spesso contengono caffeina in quantità minime, ma il loro packaging e la pubblicità ci fanno sentire  più carichi. Succhi di frutta “naturali” : le etichette con immagini di frutta fresca danno l’illusione di un prodotto salutare, anche quando contengono più zucchero di una bibita gassata. Medicinali amari : un farmaco dal sapore amaro viene percepito come più efficace rispetto a uno dolce, anche se la sua composizione chimica è identica. Perché il marketing sfrutta questi trucchi? Viviamo in un mondo saturo di prodotti, in cui ogni azienda deve combattere per catturare la nostra attenzione e convincerci ad acquistare. E quale metodo migliore se non sfruttare la psicologia umana? Il nostro cervello è programmato per cercare conferme sensoriali. Se un dentifricio fa schiuma, sentiamo  che sta funzionando. Se uno shampoo è pieno di bolle, crediamo  che stia lavando meglio. Se un farmaco ha un sapore amaro, lo percepiamo come più efficace. In realtà, nessuna di queste cose ha un impatto reale sulla funzione del prodotto, ma solo sulla nostra percezione. Quindi la schiuma nel dentifricio è solo un trucco di marketing sensoriale Il paradosso della percezione Ecco il punto interessante: anche quando scopriamo questi trucchi, continuiamo a cascarci. È difficile liberarsi dall’abitudine e dalla percezione consolidata da anni di marketing. Hai mai provato un dentifricio naturale senza schiuma? Molte persone lo abbandonano dopo poche settimane perché hanno la sensazione che non pulisca abbastanza, anche se dal punto di vista chimico e funzionale è altrettanto valido. Questo dimostra quanto siamo condizionati dall’industria e dai segnali che ci manda. Morale della storia? E' solo marketing sensoriale. Il marketing non vende solo prodotti, vende sensazioni . E spesso ci caschiamo senza nemmeno accorgercene. La prossima volta che ti lavi i denti, pensa a questo: la tua bocca sarà pulita anche senza un’esplosione di schiuma. Ma il tuo cervello accetterà la verità?ia mai.

  • Perché compriamo cose inutili?(e continueremo a farlo anche dopo aver letto questo articolo)

    Ti è mai capitato di comprare un aggeggio da cucina che prometteva di rivoluzionare la tua vita, salvo poi scoprire che era più utile come fermacarte? Oppure di accumulare magliette con frasi divertenti che non hai mai avuto il coraggio di indossare? Tranquillo, non sei solo: il marketing ci frega tutti, e lo fa con metodi raffinati. Ma perché ci innamoriamo delle cose inutili? E soprattutto, perché le aziende riescono a vendercele con una facilità imbarazzante? Perché compriamo cose inutili? 1. L’illusione della necessità I migliori marketer non vendono prodotti, vendono soluzioni. O almeno, ti convincono che quel prodotto risolverà un problema che forse non sapevi nemmeno di avere. Esempio classico: il taglia-anguria. Hai mai avuto difficoltà a tagliare un’anguria? Probabilmente no. Eppure, appena vedi un video in cui qualcuno usa un affilatissimo gadget che crea fette perfette in tre secondi, ti sembra improvvisamente indispensabile. Morale:  se un prodotto sembra creato su misura per una piccola frustrazione della tua vita, occhio: è stato pensato proprio per questo. 2. Il fascino dell’esclusività Perché corriamo a comprare oggetti solo perché sono in edizione limitata? Il trucco è nella scarsità: quando qualcosa è disponibile solo per un breve periodo, scatta un senso di urgenza. Esempi perfetti: Le scarpe da ginnastica in edizione speciale che vanno sold out in 10 minuti. Il gusto di gelato disponibile solo per un mese. La promo “solo per oggi” che casualmente torna ogni settimana. Morale:  quando ti dicono che è l’ultima occasione per comprare qualcosa, probabilmente non è vero. Ma il tuo cervello non vuole rischiare. 3. L’effetto “se lo comprano tutti, lo voglio anche io” La riprova sociale è potentissima: se vediamo che tutti acquistano qualcosa, automaticamente ci convinciamo che deve valerne la pena. Esempio: Il gadget virale su TikTok che “ha cambiato la vita” a milioni di persone. Il bestseller su Amazon con 10.000 recensioni entusiaste (di cui magari 9.500 fake). Il ristorante con una fila infinita fuori, che ci fa pensare: “Se c’è la coda, deve essere buonissimo”. Morale:  più un prodotto sembra popolare, più ci sentiamo in dovere di provarlo. Anche se non ci serve. 4. L’acquisto emotivo Non compriamo con la testa, compriamo con il cuore. O meglio, con l’istinto. Gli acquisti impulsivi nascono da emozioni: noia, stress, felicità, nostalgia… Il marketing lo sa e gioca su queste leve. Esempi: Sei triste? Regalati qualcosa, te lo meriti. Sei felice? Festeggia con un acquisto. Hai nostalgia degli anni ‘90? Ecco il gadget che ti riporta all’infanzia. Morale:  se stai comprando qualcosa per “tirarti su il morale”, fermati un attimo. Forse hai solo bisogno di una passeggiata. 5. Il piacere della caccia all'affare Il Black Friday, i saldi, le offerte a tempo: non è tanto il risparmio a spingerci, ma la sensazione di aver fatto un colpo grosso. Esempio perfetto: Acquisti un elettrodomestico che non userai mai solo perché è scontato del 70%. Spendi 200 euro per comprare dieci cose in saldo, quando con 50 euro avresti preso solo quelle che ti servivano davvero. Morale:  il miglior affare è quello che non fai. Quindi, come smettere di comprare cose inutili? La verità? Non smetterai. Perché il marketing è più furbo di te. Ma almeno, ora lo sai. (PS: Se dopo aver letto questo articolo hai ancora voglia di comprare un taglia-anguria, sappi che ti capisco.)

  • Il Big Mac Index: quando un panino diventa un indicatore economico (e di marketing)

    Chi l’avrebbe mai detto che il Big Mac , oltre a essere il classico panino da comfort food, potesse diventare un termometro dell’economia mondiale? No, non è una teoria cospirazionista, e nemmeno il piano segreto del McPotere per governare il mondo (forse). Nel 1986, il settimanale The Economist ha inventato il Big Mac Index , uno strumento che misura il potere d’acquisto delle valute confrontando il prezzo del celebre panino nei vari Paesi. L’idea di fondo è semplice: un Big Mac è uguale ovunque (pane, carne, salse e quel tocco di senso di colpa post-cena), quindi se in un Paese costa 7 dollari e in un altro meno di 2, vuol dire che qualcosa di grosso sta succedendo a livello economico. Ma perché il prezzo cambia? La risposta più semplice è: il costo della vita. In Svizzera il Big Mac costa oltre 7 dollari, in Egitto meno di 2. I motivi? Stipendi, tasse, affitti e altri fattori che fanno oscillare il prezzo. Ma se fosse solo questo, McDonald’s venderebbe il panino semplicemente in base ai costi di produzione. Invece, c’è dell’altro. McDonald’s e il marketing dietro al pricing McDonald’s non stabilisce il prezzo in base a quanto gli costa fare un Big Mac, ma in base a quanto TU sei disposto a pagarlo. Questo si chiama value-based pricing , una strategia che non tiene conto solo dei costi, ma della percezione del valore. Facciamo un esempio: in Svizzera, 7 dollari per un Big Mac sono considerati un prezzo normale, quasi economico. In Egitto, invece, 7 dollari sarebbero un’esagerazione per uno snack da fast food. Risultato? Prezzo adattato al mercato locale. La strategia è la stessa che usano tanti brand di lusso: vendere un prodotto non in base a quanto costa produrlo, ma in base a quanto il cliente è disposto a pagarlo. Un Big Mac racconta più dell’economia di un libro di finanza Se ci pensi, il Big Mac Index è un esempio perfetto di come funziona l’economia reale. Puoi fare tutti i discorsi teorici che vuoi su inflazione, potere d’acquisto e parità valutaria, ma alla fine basta vedere quanto costa un panino uguale in tutto il mondo per capire il valore reale di una moneta. È un indicatore più immediato e comprensibile rispetto a grafici e tabelle piene di numeri. Inoltre, questo indice ci racconta molto anche sulla cultura di consumo dei vari Paesi. In alcuni, il Big Mac è un pasto veloce ed economico, in altri è quasi un piccolo lusso da concedersi con parsimonia. Non solo economia, quindi, ma anche sociologia e abitudini di spesa. Cosa possiamo imparare? Il prezzo giusto non è solo una questione di costi, ma di percezione.  Se il cliente vede valore in ciò che vendi, pagherà volentieri di più. Adattare i prezzi al mercato è fondamentale.  Quello che è economico in un posto può essere visto come lusso altrove. Anche un semplice panino può insegnarci lezioni di marketing.  La prossima volta che entri da McDonald’s, pensa a questo: il Big Mac non è solo carne e pane, ma una strategia di pricing su scala globale. Gli indicatori economici migliori spesso sono quelli più semplici.  Non serve un dottorato in economia per capire se una moneta è forte o debole: basta guardare quanto costa un Big Mac e confrontarlo con il proprio stipendio. Quindi, se vuoi capire se un Paese è caro o economico, non guardare gli affitti… entra in un McDonald’s e controlla il prezzo del Big Mac. Non sbaglia mai.

  • Maremma e futuro: una terra da vivere e reinventare

    C’è una provincia in Toscana dove il tempo sembra scorrere più lentamente, dove la bellezza del paesaggio ti avvolge e la vita ha ancora un ritmo umano. È Grosseto, cuore della Maremma, un territorio che incanta per la sua autenticità e che oggi si trova davanti a una grande opportunità: trasformare la sua straordinaria qualità della vita in un motore di crescita, non solo demografica, ma anche economica e culturale. Un territorio di bellezza e fragilità Grosseto è una terra che custodisce tesori naturali e storici. Dal Parco della Maremma, con i suoi panorami mozzafiato, alle colline coperte di ulivi e vigneti, fino ai borghi medievali che sembrano usciti da una cartolina. Ma questa ricchezza, in molti casi, non viene sfruttata appieno. Le infrastrutture restano una nota dolente: strade e collegamenti ferroviari insufficienti isolano alcune aree e rendono più difficile attrarre visitatori e investitori. L’agricoltura è il cuore pulsante dell’economia maremmana. I prodotti del territorio – dal Morellino di Scansano all’olio extravergine d’oliva – sono eccellenze riconosciute a livello internazionale. Ma questa agricoltura, per quanto prestigiosa, fatica a rimanere competitiva. I margini economici sono ridotti, e chi lavora la terra spesso non riesce a trarre il giusto profitto dai propri sforzi. Anche il turismo, che rappresenta un’altra colonna portante, vive di alti e bassi. L’estate è il momento clou, con le spiagge di Castiglione della Pescaia e dell’Argentario prese d’assalto, ma per il resto dell’anno il territorio sembra rallentare, perdendo molte opportunità. L’entroterra, con le sue storie etrusche, i borghi e i percorsi naturalistici, rimane spesso un “tesoro nascosto” che pochi conoscono davvero. La qualità della vita: il vero motore del futuro Se c’è una cosa che rende Grosseto unica, è la sua qualità della vita. Qui si respira un’aria diversa: la natura è sempre a portata di mano, i ritmi sono meno frenetici rispetto alle grandi città, e la comunità conserva valori autentici. Questa qualità della vita potrebbe diventare il perno di una rinascita demografica ed economica. Perché scegliere di vivere in Maremma non è solo una questione di paesaggi: è una scelta di vita. Una scelta che potrebbe attrarre giovani famiglie, professionisti in cerca di equilibrio tra lavoro e benessere, e persino nomadi digitali, per cui il contesto naturale e una buona connessione internet sono fondamentali. Immaginate di lavorare da un borgo medievale con vista sulle colline o di crescere i vostri figli in un luogo dove possono correre liberi in mezzo alla natura. Questo è ciò che la Maremma può offrire. Per trasformare questa qualità della vita in crescita reale, servono investimenti mirati e una visione chiara fatta di un'agricoltura moderna, di turismo tutto l'anno, di infrastrutture digitali adeguate, di una rigenerazione dei borghi, di incentivi per le aziende manifatturiere. Un futuro possibile La provincia di Grosseto ha tutto per diventare un modello di sviluppo sostenibile, ma la strada passa dalla consapevolezza. Consapevolezza che la qualità della vita non è un dato scontato, ma una risorsa da valorizzare. E che investire su questa terra significa investire su un modo di vivere diverso, più autentico e umano. La Maremma può diventare un laboratorio di innovazione, un luogo dove tradizione e modernità si incontrano. Un territorio che non si limita a essere bello, ma che diventa un esempio di come bellezza e sviluppo possano andare di pari passo. E voi, come immaginate il futuro di Grosseto? Che ruolo potrebbe avere la qualità della vita nella rinascita di questa provincia?

  • Visit Oslo: Quando la Psicologia Inversa Diventa Marketing di Successo

    In un mercato turistico che vede le città d'arte sempre più affollate e invivibili nei mesi di punta - come nel caso di Amsterdam, Firenze e Venezia - Oslo punta sulla psicologia inversa . Questo approccio innovativo ha reso la campagna Visit Olso letteralmente vincente e virale: solo su YouTube, il video ha superato le 250.000 visualizzazioni (al 1° luglio 2024) e su X ha raggiunto i 2 milioni di visualizzazioni. Il video, ideato da NewsLabs As e pubblicato sul canale YouTube di Visit Oslo , vede come protagonista Halfdan, un trentunenne di Oslo. Con un tono volutamente e ironicamente monotono Halfdan elenca tutte le ragioni per cui, secondo lui, non si dovrebbe visitare la capitale norvegese. Ironia della sorte, queste ragioni – poca folla, prezzi accessibili, facilità negli spostamenti – sono proprio quelle che rendono la città ideale per chi cerca una pausa dal trambusto delle grandi città. Fin dai primi secondi del video Halfdan descrive Oslo come una città fin troppo accessibile e poco esclusiva che offre la possibilità di fare una nuotata senza allontanarsi dal centro, incontrare il re o il primo ministro per strada, attraversare la città a piedi in meno di trenta minuti, visitare un museo senza fare la fila e cenare in un ristorante stellato senza prenotazione. Il video diventa addirittura iconico quando il protagonista afferma che si c'è anche qualcosa di interessante da vedere, ma "non è esattamente la Monna Lisa!", conclude davanti a "L’urlo" di Munch. La campagna di Visit Oslo , insomma, trasforma i presunti punti deboli della città in veri e propri punti di forza. Mentre Halfdan elenca con dovizia di particolari le ragioni per non visitare Oslo, sullo schermo scorrono immagini delle architetture, dei musei, dello skyline, della movida e dei piatti tipici della cucina norvegese. Oslo quindi diventa agli occhi dell'utente una meta perfetta per chi cerca una vacanza rilassante, accessibile e autentica. La capitale si gioca quindi il ruolo di "underdog" tra le mete europee. Un successo assicurato per una campagna che invita, con ironia, a scoprire e vivere la capitale norvegese.

  • Perché Trump potrebbe vincere contro Harris: marketing elettorale a confronto

    La corsa presidenziale americana è molto più di una semplice elezione: è un esercizio massiccio di marketing politico e psicologia sociale , che riflette non solo le tensioni nazionali, ma anche le aspirazioni e le paure della popolazione. Il fascino della campagna elettorale negli USA non risiede solo nelle questioni politiche o economiche, ma nella narrazione strategica che i candidati riescono a costruire e far vivere al pubblico. Guardando i potenziali sfidanti Donald Trump e Kamala Harris , osserviamo due figure politiche che incarnano visioni di leadership completamente opposte. Cosa rende una figura come Trump così efficace in termini di marketing politico , e perché Harris potrebbe non avere la stessa presa sull’elettorato? 1. Brand Awareness: l’effetto del nome Trump Donald Trump gode di una notorietà consolidata grazie alla sua lunga carriera mediatica e al suo mandato come presidente. Per i marketer, questo è il risultato di un brand forte, che, pur con opinioni controverse, è immediatamente riconoscibile. Il “marchio” Trump è legato a messaggi forti come “America First” , che rimangono impressi nella memoria dell’elettorato e che portano con sé una narrazione chiara. Kamala Harris, pur essendo nota, non ha ancora raggiunto un livello di riconoscibilità paragonabile. 2. Posizionamento di Mercato: l’effetto di Distinzione In termini di posizionamento, Trump si presenta come un “disruptor” politico , portando avanti la narrazione di sfidare l’establishment e di rappresentare l’uomo comune. Questa strategia lo rende “distinto” agli occhi di un pubblico che cerca un leader “diverso dai soliti”. Kamala Harris, invece, è percepita come più tradizionale e affiliata all’establishment democratico. Dal punto di vista del marketing, posizionarsi come un outsider in un momento di insoddisfazione generale ha spesso un appeal maggiore rispetto al rappresentare la continuità. 3. Targeting e Segmentazione: Trump e la base fedelissima Trump è abile a parlare a un segmento ben definito di elettorato, composto da persone che si sentono ignorate dalle élite e da chi cerca una visione tradizionale dell’America. Harris, invece, ha un target più eterogeneo, ma allo stesso tempo più difficile da soddisfare, dato che le sue proposte devono risultare attraenti sia per i democratici progressisti sia per i moderati. La strategia di targeting più mirata di Trump si traduce in una capacità di convertire più elettori, un aspetto cruciale nella battaglia per la presidenza. 4. Messaggi brevi e memorabili: lo Slogan “America First” Un messaggio che funziona è breve, chiaro e ripetibile , e Trump lo sa bene. Il suo slogan “America First” ha avuto un impatto emotivo e ha rafforzato l’identificazione della sua immagine con un progetto nazionale. Invece, Harris e il Partito Democratico tendono a usare una comunicazione più sfumata e meno “memorabile” nell’immediato. Anche in marketing, spesso vince chi riesce a riassumere la propria proposta in poche parole incisive. 5. Uso dei Social Media: la forza del Marketing Digitale di Trump Trump è stato uno dei primi leader politici a sfruttare i social media come veicolo diretto di comunicazione , creando una connessione quasi immediata con il suo pubblico e bypassando i canali mediatici tradizionali. Il suo stile di comunicazione diretto, spesso polemico e istantaneo, continua a catturare l’attenzione e a creare discussione. Harris, invece, adotta un tono più istituzionale, che può apparire meno autentico e meno coinvolgente per un’audience digitale. Il Marketing della Politica e il potere della Narrazione La sfida tra Donald Trump e Kamala Harris non si gioca solo sui contenuti, ma anche sulla loro capacità di affascinare, coinvolgere e mobilitare il pubblico, elementi essenziali del marketing elettorale. Trump ha saputo crearsi un’immagine che va ben oltre la politica tradizionale, trasformando la sua figura in un simbolo di protesta e cambiamento . La campagna di Harris potrebbe trarre vantaggio, dunque, dal costruire una narrazione altrettanto potente, che la renda riconoscibile e memorabile come icona di un’America inclusiva e proiettata al futuro. In un mondo dove il marketing politico ha un peso sempre maggiore, e in cui l’opinione pubblica è profondamente influenzata dai social media e dalla narrazione continua dei media, il potere del brand personale e della comunicazione chiara sono elementi decisivi. Se Trump ha già mostrato di saper trasformare la sua immagine in un potente strumento elettorale, Harris potrebbe necessitare di una strategia altrettanto incisiva per riuscire a competere efficacemente. Le elezioni del 2024 rappresentano non solo una sfida politica, ma un test definitivo di come il marketing possa plasmare la percezione di leadership in un’epoca dominata dall’immagine e dalla comunicazione immediata.

© 2023 - Marketing Antipatico - Marco Gasparri Consulente Marketing - (+39) 347 9729834 - info@marketingantipatico.com

25 anni di esperienza nell'ambito della consulenza marketing in tutto il centro Italia. Attivo in Toscana (Siena, Arezzo, Grosseto, Lucca, Livorno, Firenze), Umbria (Perugia, Terni), Lazio (Viterbo), Liguria (La Spezia). Altre info su: www.kalimero.it

 

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